Incontro con i tre guru
Passiamo davanti a un cortiletto che apre su un piccolo tempio. Dentro c'è un assembramento di gente. Ci incuriosiamo e andiamo a vedere. Tre solenni signori con lunghe barbe bianche sono seduti a gambe incrociate su delle brandine. Sono completamente nudi. Davanti a loro, uomini, donne e bambini si inchinano devoti a mani giunte. Chiedo a un indiano che sembra un assistente se posso fotografare. Acconsente e mi spiega che i tre sono guru, santoni. Passano la vita completamente nudi, sottostando a rigidissime regole ascetiche. Bevono e mangiano solo una volta al giorno, si strappano la barba a mani nude, quando decidono di sfoltirla, dormono per terra, vivono nei templi come quello in cui ci troviamo. Si muovono anche da un luogo all'altro, distanti una quindicina di chilometri, fermandosi nello stesso posto per non più di due o tre giorni. Allora ricordo di avere incrociato nella prima giornata in bicicletta un uomo nudo che camminava scortato da un gruppetto di persone. Non ci avevo fatto molto caso e devo avere pensato che forse a me sembrava nudo, ma che fosse un effetto visivo. Adesso capisco che era un guru che si trasferiva. I tre reggono nella mano destra uno strano scopino di piume e nella sinistra una specie di teiera simile alle pentole dove le nostre nonne tenevano l’acqua calda a disposizione sulle stufe a legna.
Mentre i tre, non so bene per quale rito, si alzano in piedi e, con grande dignità, si prestano all'adorazione degli astanti, chiedo al mio interlocutore come e perché un indiano diventa guru.
«Per un moto dell'anima», mi risponde enigmatico.
«E le famiglie che dicono?», chiedo.
«Sono felici ed orgogliose e, quando possono, raggiungono il congiunto».
Mi indica un gruppo di donne raccolte ai piedi di uno dei guru: sono le parenti dell'uomo.
[…]
L’esperienza più intensa di tutto il viaggio nella sfera religiosa è stato l’incontro a Delhi con i tre guru. Tre santi (“svitati” come abbiamo prosaicamente commentato noi cinque scettici) per i quali la religiosità non è una tensione al sovrannaturale da viversi in luoghi sacri e avulsi dal mondo materiale. Anzi, i tre guru erano in mezzo al popolo e al servizio del popolo. Essi disdegnano drasticamente le “comodità” della civiltà contemporanea e, considerato il loro spartano regime di vita, di qualunque civiltà, anche remota. Non vivere, dormire, mangiare nudi e non considerare una semplice ciabatta o una coperta per la notte inutili orpelli, è “civiltà” raggiunta e superata fin dai tempi della preistoria. Però questo rifiuto delle comodità elementari non li rende avulsi dal popolo, li rende santi, li rende guru, li rende ammirevoli, ma non obbligatoriamente da imitare. Essi non chiedono che il loro ascetismo debba essere di tutti. La loro rinuncia di vita è la via con cui si elevano verso la divinità; è il modo con cui, sacrificando il corpo, santificano la loro anima. È così che si rendono utili al prossimo e nobilitano la loro esistenza: sono il punto di congiunzione tra l’uomo e la divinità. La loro scelta è un proprio “moto dell’anima”, che non condanna chi non agisce come loro. Mi sono meravigliato quando i tre hanno accettato, senza la minima esitazione, di essere fotografati. «Ma come?» mi sono detto «Perché indulgono in queste manie del consumismo occidentale?». Perché il loro personale rifiuto dei beni materiali non è volere che il mondo li rinneghi e, meno che mai, una lotta contro uno stile di vita che essi non hanno scelto, ma che loro non si arrogano il diritto di definire né giusto né sbagliato. Compresa questa filosofia, non ci si meraviglia che i guru svolgano il loro “apostolato” non nel chiuso di templi, ma nelle strade, laddove la gente possa rivolgersi a loro, toccarli, omaggiarli e… fotografarli.
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