La sonorità del cinese
È la prima volta che sento la parlata dei nativi, mentre sgorga fluente in una loro discussione. Non si capisce una sola parola. Persino in danese o in finlandese ogni tanto si capta un vocabolo di origine latina. Qui è solo un flusso ininterrotto di suoni gutturali, acca aspirate, toni di voce che s’innalzano fino a diventare striduli o che si abbassano a rendere tonda e corposa l’emissione. L’effetto musicale non è sgradevole. Molto peggio ascoltare due tedeschi che parlano e che danno l’impressione di essere litigiosi anche quando commentano il bel tempo, oppure gli olandesi che quando articolano un discorso sembra che siano affetti da una brutta laringite che li costringe a raschiarsi la gola.
Il cinese ha una sonorità tutta sua, in cui spiccano le “v” e le “f” che sembrano predominare sulle altre lettere, intervallate da parole che terminano in “ing”, “ong”, “ang” come tanti colpi di gong (appunto!) o campanellini di un concerto barocco. Completamente assenti le “r” che non riescono neppure a pronunciare, sostituendole con “l” a conferma dei triti stereotipi.
I testi sono protetti dalla legge sul Copyright ©, tutti i diritti sono riservati