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Lorlando e Oretta

La cabala non riguarda solo numeri, spesso anche le lettere dell’alfabeto. Io ho da sempre un rapporto speciale con la “elle” che mi ha segnato l’esistenza, almeno negli anni giovanili.
Mio padre, che ancora ringrazio, iniziò a infarcirmi la testolina di racconti epici quando ero in fasce. Da subito mi appassionai alle gesta di Lancillotto e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Poco più tardi il mio straordinario genitore decise di aprirmi la mente al mondo fiabesco dell’Ariosto; mi eccitò l’immaginazione raccontandomi le imprese del Lorlando furioso.
Lorlando non è un errore di stampa.
A quel tempo, non sapendo né leggere né scrivere, l’apostrofo era una parola astrusa di cui ignoravo il significato; papà continuava a parlarmi de “L’Orlando furioso” che per me era “Lorlando furioso”, senza apostrofo.
Lancillotto prima, Lorlando poi, mi convinsi che ogni eroico guerriero si chiamasse “elle” più qualcos’altro, o non era tale.
Mi rammaricai perché il mio nome inizia per “emme”, lo consideravo uno smacco della sorte.
C’ero andato vicino, accidenti!
La “elle” e la “emme” sono vicine di casa; sarebbe bastato pochissimo e anch’io avrei potuto essere un eroe come Lancillotto, Lorlando, ma anche come gli altri che nel frattempo avevo imparato a conoscere: Lachille, Lulisse, Laiace, Lenea, Lèttore, Lercole e tutti gli invincibili guerrieri mitologici che incendiavano la mia fantasia di bimbo.

Più tardi, ai tempi della terza media, scoprii l’amore.
La divina creatura che mi tolse il respiro fu Loretta, una soave coetanea dai morbidi capelli, neri e ondulati, con gli occhi da cerbiatta. Segno del destino? Anche lei con il nome che iniziava con la lettera “elle”, come quello dei leggendari eroi infantili.
Da subito non me ne accorsi.
A tredici anni avevo imparato che esistono gli apostrofi e mi sembrò normale ritenere che la padrona del mio cuore fosse l’Oretta. Il nome, sbarazzino e soavemente musicale, era una misura di tempo, come quello scandito dal pendolo con il tic-tac, metafora dei battiti del mio cuore che, pensando a lei, risuonavano come un taratatata di mitragliatrice.
Quando un amico mi diceva: “Adesso sto facendo i compiti; ci vediamo tra un’oretta”, le mie viscere si contorcevano nei morsi della gelosia. Che intendeva dire il compagno? Ci vediamo tra una sessantina di minuti oppure dopo essersela spassata con la mia amata?

Poi scoprii l’equivoco. Era Loretta e non l’Oretta; aveva la fatidica “elle” all’inizio a certificare che la cabala assegnava quella fata a me, fin dal nome.
Cosa avrei potuto chiedere di meglio?
Nella testa e nel cuore impazziti un’orchestra celestiale intonava la “elle” fatale, quella che dava il la (mia nota preferita) al melodioso susseguirsi di armonie zampillanti dal resto della parola, dove la “o”, la “erre”, la “e”, la doppia “ti” e la “a” finale facevano da ancelle musicali a lei, la regina “elle”, che precedeva le altre nel melodioso corteo del suo nome: LORETTA.
Ero innamorato perso.
La meravigliosa dea, stessa scuola ma sezioni diverse, mi degnava a malapena di uno sguardo distratto ogni tanto; quando lo coglievo verso di me mi provocava rossore al viso, sudorazione torrenziale, secchezza in gola, tremori, palpiti a mille. Più spesso Loretta lo saettava altrove; allora i medesimi sintomi erano tormentosi riverberi di malsana gelosia.

Gli esami di terza incombevano.
Ero sempre stato uno studente diligente; non avevo mai creato patemi ai genitori. Quell’anno, forse complice la cotta per la quale il mio cuore e la mia mente deviavano dallo studio, andai in affanno su una materia, unica tra le tante: il latino! Balza agli occhi la lettera iniziale di quella disciplina: ancora lei, l’amata, vituperata “elle”.
Papà e mamma giudiziosamente decisero di affidarmi a una professoressa per un rafforzamento con ripetizioni extra scolastiche. La docente prescelta non insegnava nella mia sezione, quindi non si configurava alcun illecito; con il cuore in gola scoprii che era titolare di cattedra nella sezione di Loretta.
Iniziarono pomeriggi in cui instancabilmente coniugavo verbi e declinavo vocaboli in latino; la prof mi ispirava simpatia e io ne ispiravo a lei. Mi strappò delle confidenze e io, innamorato più di Lorlando per Angelica, le rovesciai addosso l’ardore del mio ispirato e disperato sogno romantico.
Fu subito conquistata dalla vicenda di due adolescenti che vivevano un amore a senso unico: il mio verso la divina ragazza, senza viceversa.
Nell’imminenza degli esami, quando la confidenza con la prof raggiunse l’apice, mi azzardai a chiederle un occhio di particolare benevolenza per la mia diletta. Ridendo per la sfacciataggine, acconsentì, ammiccando con complicità.

Arrivarono i giorni degli esami, con il clima di gioiosa eccitazione che accompagna quei momenti e quegli anni adolescenziali.
Nel viavai di prove scritte e orali noi ragazzi ci si trovava nei corridoi e nell’atrio della scuola a discutere di risultati, sensazioni, paure, speranze.
Tutti traguardavamo a quando, di lì a poco, chiuse le sessioni di esame, ci saremmo trovati al Lusentino (notata le “elle”?) una località montana sopra la nostra città, dove ci si riversava ogni domenica estiva a godere il sole e la frescura all’aria aperta.
Aspettavo quel momento, finita la scuola, per dichiararmi all’angelica Loretta.
Ci facevo castelli in aria senza sosta. Immaginavo la scena in ogni minuscolo dettaglio. Giravo le sequenze di un film cerebrale, materializzando dentro di me le sicurezze che pensavo di avere, intrise con le paure e le timidezze che sapevo mi avrebbero attanagliato. Era una dolce tortura che infliggevo a me stesso, rimuginando ogni istante che avrei vissuto, cosa avrei detto io e cosa avrebbe detto lei. Per ogni azione e reazione elaboravo infiniti schemi. Se lei avesse detto “a”, io avrei detto “b” e lei avrebbe risposto “c”. Poi fantasticavo su parole diverse e risposte conseguenti in un tormento esaltato e in una esaltazione tormentosa senza fine
Pregustavo l’epilogo a cui anelavo: forse al Lusentino mi avrebbe permesso di prenderla per mano; forse - al solo pensarlo il cuore saltava dei battiti - si sarebbe lasciata baciare in un angolo appartato dell’alpe, come vedevo fare da compagni più grandi e scafati.
La mia fantasia ardiva di più.
I più esperti tra noi ragazzi raccontavano di peccaminosi baci alla francese, definizione che allora era sconosciuta; noi dicevamo “limonare”, termine usatissimo a quel tempo, e mai una parola che si apre con la “elle” mi parve più languida e suadente: la premessa e la promessa di un lasciapassare per un mondo voluttuoso a me ancora precluso e anelato.

Quel giorno l’eccitazione per l’esame e l’entusiasmo dei progetti che coltivavo mi tradì.
Quando Loretta, fuori della sua classe, raccontò a un gruppo di noi ragazzi e ragazze come una prof le avesse suggerito un passaggio durante la prova, compresi che l’insegnante mia complice aveva mantenuto l’impegno e l’aveva aiutata. Immaginai che Loretta avesse visto solo la punta dell’iceberg e che il sostegno della docente mia alleata fosse stato maggiore di ciò che raccontava.
Non mi trattenni, non seppi resistere, abbandonai ogni buon senso ed esplosi trionfante dicendo:
«È merito mio Loretta! Ho ottenuto io dalla prof un trattamento di favore per te mentre andavo a ripetizione da lei. Mi aveva promesso che ti avrebbe aiutata. È stata di parola».
Il tempo di finire quella dissennata rivelazione e compresi di avere prodotto una catastrofe.
La consapevolezza della clamorosa gaffe, mi schiaffeggiò. Avevo affermato davanti a un vasto pubblico di compagni che il buon risultato finale non sarebbe stato merito suo ma mio. Era come averle conferito la patente di incapace a sostenere l’esame senza un aiuto sleale. Perpetrai un oltraggio sanguinoso che mi procurò odio e vendetta invece dell’amore che tanto sognavo.
Loretta furiosa (altro che Lorlando, l’Ariosto ci sarebbe andato a nozze!) mi lanciò uno sguardo assassino che avrebbe trapassato la corazza del prode Lancillotto, più quelle di Lachille, Lèttore e Lulisse, anche se fossero stati in fila uno dietro l’altro.
Rabbiosa e acida come un limone rancido sibilò:
«Io non ho avuto bisogno di nessun aiuto, me la sono cavata benissimo da sola!»

Pochi giorni dopo, lassù al Lusentino, cercai invano di ricevere un minimo di considerazione da Loretta; lei non mi degnò di uno sguardo. Smise persino di salutarmi. Arrivavo io e lei girava la testa dall’altro lato, oppure, il che era ancora più umiliante, mi trapassava come se io fossi stato invisibile come un fantasma.
Poi finalmente mi guardò; fu l’unica occhiata che ricevetti. Fu quando Loretta, mano nella mano con un mio compagno, apparve raggiante, incantevole, regale, avviandosi languidamente verso una delle zone “galeotte” che io avevo sospirato di raggiungere con lei.
Fu uno strazio, crudele e sanguinante per il mio cuore, una delusione che mi bruciò per anni.
Ancora oggi, ricordando, rivedo quegli occhi: lei altera e sfrontata, sprezzante e trionfante, intersecati a quelli estatici del mio beato rivale, baciato dalla sorte.
Lui. Ladro. Losco. Lubrico. Lascivo.
Luciferino anche nel nome: Lucio.
Dannata “elle”!

Dopo le medie Loretta seguì la propria strada scolastica, differente dalla mia. La rividi di tanto in tanto, come avviene nelle piccole città di provincia; il cuore mi sanguinava ancora, ma sempre meno, più per lo smacco che per la passione svilita.”
Un giorno, poco tempo dopo, seppi che si era trasferita in Svizzera con la famiglia. Mi stupii: la cabala aveva fallito? Nel toponimo Svizzera non c’è ombra di “elle”; mi sarei aspettato fosse emigrata in Liechtenstein, Lettonia o Lituania.
Più tardi un amico mi diede la notizia che riabilitava il sortilegio della cabala: Loretta si era trasferita nel Cantone di Lucerna. La potenza della “elle” non fallisce mai!

Non ho più visto quel mio amore infelice, né ho più avuto notizie di lei.
Ne conservo l’insegnamento: LAMORE è una LAMA LANCINANTE che LACERA LANIMA, a dispetto del LETÀ.

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