top of page

Meloni e la vecchia zia

17 ottobre 2022

Avrò avuto una dozzina d’anni. A casa nostra veniva due o tre volte all’anno una vecchia zia di mia madre a cui tutti eravamo affezionati. Lei abitava a Milano, era una “cittadina”, nei modi e nei pensieri, ma le piaceva soggiornare qualche giorno a Domodossola dai suoi parenti più stretti, nonostante in cuor suo ci considerasse un po’ paesanotti. Noi tolleravamo e sorridevamo delle sue piccole manie di vecchia signora ultraottuagenaria, compatendo innocue fissazioni di donna abituata a vivere sola soletta nella metropoli lombarda.
Mangiava di tutto, facendo onore alla cucina di mia madre, ma aveva drastici vezzi alimentari, dettati dalla pubblicità (allora si diceva réclame), che in quegli anni lontani iniziava l’asfissiante marketing a cui oggi siamo – ahinoi – avvezzi. I dadi per il brodo dovevano obbligatoriamente essere Liebig, pontificava la vecchia zia, il burro rigorosamente Prealpi, l’olio immancabilmente Sasso e le conserve alimentari inequivocabilmente Cirio.
Mia madre ogni mattina preparava la colazione per la vegliarda e per il resto della famiglia che, compostamente, si radunava attorno al tavolo per compiere il rito del primo pasto della giornata.
Un giorno, mia madre preparò un caffè fumante, alcune michette appena sfornate dal panettiere sotto casa, un bricchetto di latte portato sull’uscio dal lattaio (ah, che tempi!), un piattino con burro Prealpi, ancora avvolto nel pacchettino bianco, con il marchio bene in vista. Poi servì la marmellata. Conoscendo benissimo sua zia, usò un piccolo stratagemma. Nel segreto della cucina aveva preso la confettura di non ricordo quale frutto, preparata con le proprie mani, l’aveva messa in un barattolo vuoto Cirio e l’aveva servita in tavola, a disposizione dell’esigente ospite.
Io ero al corrente del trucco. Osservai la zia che placidamente aprì una michetta a metà, spalmò con grazia il burro Prealpi sulla mollica, intinse il cucchiaino nel vasetto della marmellata e aggiunse una copiosa dose di quella prelibatezza sul panino multistrato. Addentò e gustò il sapore chiudendo gli occhi, estasiata.
Non seppe trattenersi: «Cirio e poi più!», commentò con trasporto. Mia madre, io e gli altri complici della congiura faticammo a non ridere, anzi a rimanere composti e impassibili, mentre la marmellata made by mamma trionfava sulle papille gustative della dolce vecchina.
Giorgia Meloni non sta sbagliando nulla, lo devo ammettere, nonostante il mio cuore antifascista soffra un po’ nel riconoscerlo.
Dichiarazioni imperniate sull’equilibrio e la moderazione, compostezza nei toni e negli atteggiamenti, nessun trionfalismo dopo la netta vittoria alle elezioni, anzi una consegna rigorosa con se stessa e con i suoi di non indulgere in alcun festeggiamento, recitando come un mantra che l’impresa di varare un governo “all’altezza”, implichi sobrietà e nessun brindisi, vista la situazione drammatica attuale.
L’elezione di La Russa è stata una coltellata per me e per tutti coloro che vomitano al solo pensiero di avere un fascista, mussoliniano della peggior specie, a ricoprire la seconda carica dello stato. Eppure, quel personaggio tristo e bieco, e pure brutto a vedersi, ha saputo confezionare un discorso di esordio (e io non ho dubbi che ogni singola parola sia stata concordata con la sua “capa”) che mi ha sorpreso non poco - (attenzione: sorpreso non vuole dire tranquillizzato!), - in cui ha riecheggiato Luciano Violante in un’analoga investitura, quale presidente della Camera nel 1996. La Russa ha riconosciuto la legittimità di feste quali il 25 aprile e il primo maggio, giorni che la destra ha sempre ignorato fino al disprezzo, soprattutto ha pronunciato parole “pesanti”, commentando il discorso di Liliana Segre, discorso marcatamente antifascista (se non è antifascista lei, chi può esserlo?), in cui testualmente ha dichiarato di “applaudire ogni parola” pronunciata dalla senatrice a vita.
Tornando alla Meloni, stenderei un pietoso velo sull’elezione di Lorenzo Fontana, che avrebbe potuto essere peggiore solo eleggendo l’inqualificabile Simone Pillon che, per fortuna, non è più né deputato né senatore; mi piace pensare che la Meloni abbia accettato un personaggio da medioevo come Fontana, non potendo dire altri no all’alleato Salvini. A quest’ultimo la ducetta della Garbatella ha negato il posto di ministro dell’interno – e l’ha negato con forza, rischiando ritorsioni del leghista – per un opportuno gioco politico che provo a spiegare. Salvini agli interni è una mina vagante, lo sa anche la Meloni: il suo giochino ricalcherebbe quello già applicato con Conte, Di Maio e i 5S, ovvero azioni tanto folli quanto plateali a favore di legittima difesa, immigrazioni, barconi, ecc. Il tutto finalizzato a eccitare la pancia di italiani di bocca buona, propiziandone il ritorno alla Lega, almeno nei sondaggi. Salvini, non sa e se lo sa se ne frega, che questi comportamenti dissennati sarebbero malvisti dall’Europa che conta, ovvero quella di Bruxelles, Berlino e Parigi. La Presidente dei Fratelli d’Italia ha chiarissimo in mente che la durata del suo governo passa dall’armonia con le altre cancellerie importanti europee e gli USA; tra l’Amicizia di Salvini e quella dell’Occidente, Giorgia non ha il minimo dubbio: sceglie la UE e Biden.
Questa strategia è chiarissima nei comportamenti della Meloni, o almeno a me pare tale.
Anche il grave incidente diplomatico con Berlusconi è stato illuminante: meglio una rottura con il vecchio puttaniere bollito, che sottostare ai suoi pericolosi capricci, che si chiamino Ronzulli o Fascina.
Sintesi. La Meloni ha vinto, ma sa che la destra (che sogna Salvini) non può governare se non il tempo di un gelato al sole. La destra può governare (e Giorgia l’ha capito benissimo) quanto più rinnega se stessa o almeno si maschera. Paradossalmente la Meloni deve fare quello che farebbe Draghi, se vuole che l’Occidente la lasci governare. Così sta facendo (o dando l’impressione di volere fare). Ministri di alto profilo, attenzione all’austerità economica che sarebbe pericolosissimo e devastante disattendere, atlantismo chiaro e netto, amicizia con l’Ucraina e avversione a Putin, difesa delle istanze sociali, in primis la legge 194 che la premier futura ha dichiarato con forza di volere mantenere.
Ma chi diavolo è Giorgia Meloni?
Semplice: è un vasetto della Cirio con dentro marmellata fatta in casa. Il barattolo e l’etichetta indicano destra e anche estrema destra, ma il contenuto interno è qualcosa di diverso, non diciamo che sia sinistra, ma almeno in linea con ciò che avrebbe fatto Draghi (e il PD dei Gentiloni e dei Letta) questo sì.
E gli elettori? Che dicono?
Quelli di destra sono come vecchie zie: basta che il barattolo sia quello che piace a loro, poi che il contenuto non sia in linea con quanto vorrebbero, è trascurabile. Tanto non se ne accorgono.
E quelli di sinistra? Beh, anche molti di loro sono come vecchie zie (un po’ meno di quelli di destra): per loro l’etichetta del barattolo sarà sempre da vituperare, non si accorgeranno minimamente che il contenuto, la marmellata, potrebbe essere in linea con quello che avrebbero fatto Draghi e il PD. Continueranno a brontolare, criticare e a sentirsi vittime di neofascismo.
In fondo è un film già visto. Quando fu abbattuto il governo Conte ci furono plausi e sospiri di sollievo da destra e da sinistra. Arrivò Draghi e ricalcò quello che aveva fatto il predecessore (barattolo diverso, ma marmellata sempre uguale): le vecchie zie di destra e di sinistra applaudirono perché… “Draghi sì, Conte no”.
Il nodo, care vecchie zie, è che il sistema Italia si regge solo se le nostre scelte e i nostri governi sono marmellata che piace a Bruxelles, a Berlino, a Parigi e a Washington: il barattolo può essere quello che ci pare, di destra o di sinistra, rosso o nero.
La Meloni sembra averlo capito. Forse perché – come sussurrano – il suo compagno di vita è di sinistra?

I testi sono protetti dalla legge sul Copyright ©, tutti i diritti sono riservati

bottom of page