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Sconvolti da una tempesta di sabbia

Dopo Tianjin si è alzato un fastidioso venticello che, nella migliore tradizione dei ciclisti, soffia in diagonale nella direzione contraria alla nostra. Procedendo mi accorgo che aumenta d’intensità e, nel contempo, cominciano a levarsi folate di sabbia finissima, quasi cipria, che arrivano a ondate irregolari.
Il paesaggio è mutato ancora, la pianura che ci circonda è diventata secca e sabbiosa, come una sterminata spiaggia in cui è assente il mare. Qua e là si vedono delle strane trivelle dalla testa a martello che ricordano quelle dei pozzi petroliferi. Forse lo sono; quello che ci circonda è un immenso brutto nulla, non la costa marina che avevamo vagheggiato.
Il vento peggiora e progressivamente ci troviamo immersi in una nebbia di polvere densa di colore ocra.
Faccio fatica a distinguere Carlo che pedala a testa bassa davanti a me, impossibile inquadrare Angelo e gli altri due. La strada è pericolosa. Esiste sempre la corsia destinata a biciclette e motorini, ma il traffico di camion che ci sfiorano sbucando tra la polvere è incessante. Ognuno di quei bestioni che ci sorpassa, suonando il clacson ininterrottamente, fende la coltre di pulviscolo, sollevandone altro, ricoprendoci ancora di più di quella caligine giallastra. Non ho mai sperimentato una tempesta di sabbia nel deserto, ma credo che non possa essere molto diversa da questa.
Sto pedalando in un inferno che ricorda una bolgia dantesca; tutto è offuscato e avviluppato da quella spessa nebbia sabbiosa. Rallento ulteriormente, seguendo l’ombra confusa di Carlo di cui mi giungono le frequenti imprecazioni. Proseguire in queste condizioni è un martirio e forse un suicidio: dubito che i pesanti veicoli che ci sfrecciano accanto ci vedano se non a ridosso, come confermano gli strazianti ululati dei clacson. Urge fermarsi.
A fatica Carlo e io riusciamo a distinguere la sagoma di un edificio che si staglia a lato della strada, in fondo a un piazzalone sepolto da quella micidiale polvere ocra.
«Devono essersi fermati qui», mi dice l’amico, intuendo più che vedendo le sagome delle biciclette appoggiate al muro dell’edificio.
Sono loro. Da una finestra ci fanno segno di entrare; siamo dei naufraghi a cui si presenti una zattera.
Appoggio la bici al muro e la osservo: borse, bandiera italiana, telaio, manubrio, tutto è ricoperto e nascosto da quell’assurda cipria ocra. Lo stesso Carlo davanti a me assomiglia a una statua di terracotta.
Il locale, che è una piccola trattoria, ha un minuscolo atrio in legno che sembra fatto apposta per spolverarsi. La situazione che stiamo vivendo non deve essere l’eccezione, ma la regola in questo posto infame.
Rimaniamo tappati nella locanda per un paio d’ore, nella speranza che almeno il vento si attenui. Nessuno di noi se la sente di affrontare un nuovo bagno in quella nebbia polverosa.
Alla fine Graziano ci riscuote dall’inerzia:
«Dai, forza! È ora d’andare!», ci incita.
Uscire e tuffarsi in quella cortina odiosa è un trauma. Il piazzale è largo e sullo sfondo si vedono le sagome rombanti dei camion che perforano la coltre di polvere come squali che attraversano le tenebre degli abissi.
La superficiale spolverata che mi sono dato prima di entrare nella locanda viene annullata in pochi secondi già nel percorrere il piazzale fino alla strada. Forse il vento si è un po’ attenuato, non certo il polverone.
Riprende il penoso viaggiare, con le gambe indurite dalla sosta. Sono le tre del pomeriggio; auguro a me stesso che ci si fermi tra non molto.
Pedalare in quelle condizioni è una tortura, ma lentamente qualcosa cambia: non il vento che si mantiene ostinatamente fastidioso e contrario, ma il terreno. È meno sabbioso e la coltre di cipria asfissiante che ci avvolgeva diventa più rada fino a quasi sparire del tutto.
La finissima sabbia però è rimasta: guardo con rammarico la povera bandiera italiana, eroicamente appesa al bagaglio. È giallo ocra anch’essa e, a malapena, si distingue il tricolore.

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2009-11-05-15-41-46  Mosso Santa Maria - Ca' d'la Minna_edited.jpg
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