Ieri è mancato l'amico Piero Peretti, compagno di teatro e... mio gemello, come scherzosamente ci definivamo noi: stesso anno di nascita, lui del 31 agosto, io del 16 settembre.
Al di fuori del teatro non ci siamo frequentati molto perché non eravamo vicini, però abbiamo fatto qualche gita in montagna insieme, sempre chiacchierando con simpatia reciproca.
Ci si incontrava su Facebook che, chissà perché, viene biasimato come tutti i cosiddetti "social", come fosse una dannazione dei tempi moderni. Invece, in questo bar virtuale, si facevano ancora quattro chiacchiere o ci si scambiavano "mi piace" di condivisione.
Vorrei tanto partecipare di persona almeno al suo funerale, invece un impegno irrisolvibile me lo impedisce; lo saluto qui, ancora una volta via Facebook, ma oggi non riceverò il "mi piace" che vorrei leggere: il suo.
Buon viaggio, gemello Piero, riposa in pace nel club degli attori scomparsi e, soprattutto, in quello delle brave persone in cui ci stai di gran diritto.
Più il tempo passa e più ci si stupisce di quanto il tempo passi. Velocemente.
Oggi è il venticinquesimo anniversario della scomparsa di mia mamma. Quel 21 agosto del 1996 mi sembrava che il dolore mostruoso che sentivo dentro non potesse scomparire. Ero giovane io e soprattutto era giovane lei: appena 73 anni.
Oggi mi sto già avvicinando a quell'età; mi basta un altro passettino e i miei 73 sono lì. Questo mi fa capire quanto giovane fosse lei perché io, ingenuamente, mi sento ancora tale.
Eppure allora la guardavo con gli occhi di un figlio e come tutti i figli non vedevo i genitori con l'età che hanno. I genitori sono senza tempo. Io in quel 1996 avevo 46 anni, da quando ero nato ero abituato a guardare il volto della mia mamma e vederlo sempre identico: sempre bella, sempre senza età, sempre immutabile, sempre lo stesso viso tenero e sorridente che mi aveva accompagnato nei miei decenni di vita. Però anche per lei gli anni erano trascorsi inesorabili. Dai 27 che aveva quando mi ebbe, ai 73 finali, passando per i 30, i 40, i 50, i 60 e poi i 70 che avevamo festeggiato quando quell'ultima boa era stata sorpassata.
Lei cambiava, invecchiava e per me era sempre uguale: lo stesso faro di luce che guardandolo e facendomi guardare mi tranquillizzava, mi trasmetteva una pace interiore che mi era indispensabile, anche quando ero ormai giunto all'età matura.
Il volto della mia mamma. Illuminato di gioia quando osservava il suo Marco e la sua Gabriella che lei definiva il meglio avesse fatto nella vita.
E così sono trascorsi 25 anni. L'esistenza è crudele: ti infligge dolori tremendi, ma è anche compassionevole, perché ti consente di superarli e di metabolizzare quanto di più assurdo esista: perdere la persona cara e, nel caso della madre, la più cara di tutte per un figlio.
Ho ripreso a lavorare, mangiare, bere, dormire, divertirmi, correre a vuoto, agitarmi, rasserenarmi, piangere e ridere, anche senza di lei.
Adesso, mentre la sto ricordando in questo melanconico anniversario della sua morte, mi accorgo di quanto sia ancora dentro di me, di quanto io ancora viva alla luce di cui mi irraggiava.
Ripenso quando veniva a svegliare lo studente che ero allora. Ritrovo la dolcezza con cui sapeva aprirmi gli occhi al nuovo giorno, preoccupandosi che iniziasse con una nota di gentilezza.
Assemblando insieme ironia e poesia recitava a me ancora addormentato un verso di De Amicis che, chissà perché, l'aveva colpita, e mi propinava come viatico per la giornata.
"È l’alba, figlio mio! Sorgi e lavora!"
Grazie mamma, tu hai fatto quello che tante, forse tutte, le mamma fanno. Ma da 25 anni a me sembra che tu abbia fatto di più.
E così sono passati vent'anni!
È proprio vero che il tempo è relativo. È la più stupida delle stupide frasi fatte, ma spesso vieni travolto dalla veridicità del contenuto. Nella vita di un uomo i primi vent'anni sembrano eterni, non finiscono mai. Da lì in poi i vent'anni si accorciano come per magia; ogni mese diventa un attimo che finisce troppo presto.
Oggi sono vent'anni da quando papà se n'è andato. Sembra ieri (altra frase fatta).
Era quieto nel suo letto di ospedale, aveva subito un'operazione devastante, era in attesa di non si sa bene cosa: forse di penare per molti mesi aspettando una morte che sarebbe arrivata inesorabile, tra mille torture. Invece il suo cuore ebbe un soprassalto di orgoglio, di ribellione e si fermò, si rifiutò di continuare a battere per procrastinare una tortura disumana e assurda.
Io stavo tornando in auto all'ospedale dove avrei trascorso la notte con lui per assisterlo; mi raggiunse la telefonata del medico di guardia per annunciarmi con umanissimo imbarazzo che "il paziente era spirato".
Probabile gioia per mio padre, sicuro dolore immenso per me. Ero solo in auto e non avevo remora né motivo per trattenermi. Urlai con tutto il fiato che avevo in gola il mio sgomento e piansi.
Poco più tardi, ritrovato un precario equilibrio, salii le scale dell'istituto dove era ricoverato e mi condussero nella saletta in cui l'avevano posizionato. Aveva gli occhi chiusi, sembrava sereno. Lo baciai; scoprii ancora il calore vitale nel suo viso. Quel calore mi sembrò naturale e innaturale contemporaneamente.
Facevo fatica a ficcare dentro me stesso la consapevolezza che non avrebbe parlato più, non avrebbe scherzato più come suo solito, non sarebbe sparito più, come d'abitudine, nell'impossibilità di rimanere fermo per più di qualche minuto nello stesso luogo.
Il mio papà era lì, immobile, riscaldato da un rimasuglio di tepore che presto sarebbe svanito.
Questi ricordi sono così vividi che sembra impossibile siano trascorsi vent'anni.
Come è assurda la natura umana!
Le memorie dei momenti di gioia svaniscono come bolle di sapone, quelli di dolore atroce si radicano in noi come piante infestanti. Non è giusto!
Non è giusto neppure che siano già vent'anni da quando papà ha finito la sua vita e io in questo lasso di tempo sto già quasi raggiungendo l'età che aveva allora.
Questi quattro lustri mi hanno insegnato molto. Ho rivalutato la figura dell'uomo che non solo mi ha generato, ma mi è stato modello per tutte le qualità che sono orgoglioso di avere.
Mi hanno insegnato a ringraziarlo spesso in questa stagione matura della mia vita.
Mi hanno abituato a vivere con la sua presenza, a volte così vivida che nella testa mi risuona la sua voce sempre pronta alla battuta di spirito.
Concludo questo ricordo con un'ulteriore frase retorica e scontata, ma formidabilmente vera: sei dentro di me, papà.
Continui a vivere finché sarò vivo.
In morte di Francesco Brambilla
È mancato Francesco Brambilla , papà del caro amico Beppe. Nell'esprimere le mie condoglianze alla moglie Giuliana, alle figlie oltre che a Beppe, voglio ricordare con uno scritto la persona che non c'è più.
Francesco Brambilla, di lui ricorderò sempre la presenza discreta e immancabile insieme alla moglie Giuliana in tutte le occasioni in cui Beppe, il loro figliolo, si esibiva dirigendo il Coro. Per lo più erano concerti di grande impegno o trasferte in Italia e all'estero (lì non mancavano mai), ma sovente l'occasione era più modesta. Non importava. Erano due pensionati e investivano il loro tempo nel modo migliore possibile: assecondare la passione del figlio, godere di musica a loro gradita e fare sentire al loro "ragazzo" che la presenza di due Genitori (la maiuscola non è casuale) non manca neppure quando i figli sono ormai adulti e hanno i capelli bianchi non solo sulle tempie.
Io in quei concerti solevo presentare. Spesso avevo davanti a me la coppia dei signori Brambilla, seduti nelle prime file (ma mai troppo davanti), seri, attenti, compunti, senza eccedere in manifestazioni né di approvazione né di dissenso.
Composti, quasi solenni, nell'assistere lo spettacolo di Beppe e dei suoi cantori.
Un presentatore non dovrebbe mai concentrare lo sguardo su questo o quello spettatore, è un malvezzo che infastidisce la persona bersaglio ed evidenzia l'insicurezza di chi sta parlando. Spesso io con Francesco e Giuliana ci cascavo. La figura ieratica di lui, il viso di istintiva solennità, mi metteva un pizzico di soggezione e temevo il suo giudizio per il figlio, per il Coro, per il presentatore.
Faticavo a distogliere lo sguardo da Francesco e dalla sua compagna; ci riuscivo con sforzo, senza mai beneficiare di un cenno o di un gesto che mi facesse capire come stavamo andando.
Quello per loro era il momento dell'ascolto, non dei giudizi. Questi arrivavano dopo.
Finito lo spettacolo li avvicinavo tra i primi. Il loro parere mi premeva tantissimo.
Li salutavo facendo una gran fatica a dare del tu, anche se ho pochi anni meno di loro.
Chiedevo come era andata e aspettavo il giudizio asciutto che sarebbe arrivato: sintetico, sincero, esaustivo come una sentenza scarna e giusta.
Giuliana mi regalava un sorriso affettuoso. Francesco pronunciava un paio di parole senza fronzoli. "Bravi" oppure "Poco concentrati" o "Mi siete piaciuti". Spesso ce n'era anche per me: "Ti dilunghi troppo. Taglia le presentazioni!"
Eh sì! Era una stagione entusiasmante quando ci si impegnava a cantare e a sentirci tutt'uno tra noi cantori e il pubblico, un tempo che, almeno per me, è inesorabilmente finito.
Adesso Francesco se n'è andato e non sono retorico affermando che se per magia mi ritrovassi a cantare in un concerto importante con il nostro Coro e vedessi la platea orfana del papà di Beppe, sarebbe un'assenza percettibile quanto una stonatura o un accordo disarmonico.
Non mi piace rivolgermi in prima persona a chi è scomparso, lo trovo stucchevole e artefatto, però in questa circostanza trovo giusto farlo.
"Caro Francesco, mi sento di darti del tu senza imbarazzo in questo momento. So che sei stato una grande persona, tutto assorto nel crescere ed educare la tua numerosa famiglia e so che ci sei riuscito benissimo, avendoti conosciuto personalmente e soprattutto attraverso le parole con cui Beppe ti ha sempre descritto.
Ho invidiato in te e in Giuliana la capacità di essere Genitori con la G maiuscola. Sei stato abile e fortunato; sono convinto che nel tuo percorso umano tu abbia raggiunto la meta migliore che la vita ci offre: lasciare una traccia che i tuoi figli possono seguire con orgoglio. Parlando con Beppe pochi giorni fa, quando tu stavi vivendo le ultime ore, gli ho raccomandato di piangerti, ma di essere felice per te, perché replicando con le sue figlie il genitore che sei stato, continuerà a farti vivere.
Riposa in pace, Francesco".
Alle elementari ci conoscevamo già. Eravamo tra i più alti delle rispettive classi, ma lui era anche allora il torello che è stato per tutta la vita. Con Luciano era meglio non fare a cartellate, come si usava in quei tempi, ci si rimetteva.
Così è cominciata la nostra amicizia. Lui rustico abitante del pian di Vagna, come diceva vantandosene, io più “cittadino”, una menomazione per me agli occhi di allora.
Ah, se avessimo saputo che curato e accurato signore sarebbe diventato poi!
L’adolescenza fu l’epoca delle scorribande nei prati che a quel tempo circondavano la periferia di Domo, racchiusa tra il letto del Bogna e le pendici del Calvario e del Lusentino. Con Angelo, Roberto e altri scavezzacollo combinavamo tutto ciò che avrebbe tolto il respiro alle nostre madri se ci avessero visto.
Più avanti cominciarono le stagioni dei filarelli. Iniziò anche il confronto, a volte aspro, tra me e lui, due galletti nel pollaio, due maschi alfa (maschietti alfetta, meglio) che disegnavano le gerarchie nel branco. Capii subito che sul piano fisico non c’era competizione. Era più forte di me, più resistente di me, più agguerrito di me, potevo solo avere la peggio.
Su altri fronti, quello intellettuale, speravo un po’, ma era durissima anche lì. Luciano aveva un cervello brillantissimo, senso dello humor, perspicacia e, crescendo, acquistò anche cultura, grande cultura. Oggi lo reputo una delle persone più intelligenti conosciute nella mia vita; diventare grandissimi amici, invece che rivali, fu la scelta migliore e anche più spontanea visto che affetto, stima e amicizia non mancarono mai.
Da giovinotti condividemmo altre avventure. Fummo soci in un velleitario allevamento di maiali che fruttò tanto lavoro, nessun guadagno, ma ci diede un’immensa ricchezza immateriale: risate e divertimento infiniti. Ci inventammo una prima avveniristica festa a Vallesone, fummo insieme all’Università a Milano (ma in facoltà diverse), ci sbeffeggiammo per le prime morose, andammo tante volte in montagna anche se, inutile dirlo, lui era di una categoria superiore. Insieme iniziammo a cantare in coro, passione che abbiamo condiviso ininterrottamente. Grande fu la gioia quando riuscimmo a fare esibire i nostri rispettivi gruppi vocali in concerti condivisi.
Poi venne la stagione della maturità: mogli, figli, famiglia. Io abitavo in Brianza, ma ci si vedeva spesso e alcune volte si fecero vacanze congiunte con la tribù di marmocchi e consorti.
Ci si raccontava le rispettive esperienze professionali, le vicende lavorative, i viaggi. Lui era interessato al mio mondo di computer, io affascinato del suo lavoro a contatto con la natura, con i boschi, gli alpeggi, le strade campestri. Mentre mi districavo tra bit e byte (nessun rimpianto, per carità!), Luciano costruiva due capolavori quali il Gattascosa e, gioiello assoluto, la Tensa, realizzazione che porterà il suo nome e il marchio della sua genialità per sempre.
Con l’inizio della terza età ci avvicinammo ulteriormente. Avevamo più tempo per noi e quando si poteva lo si condivideva. Qualche anno fa salimmo insieme in vetta ai quattromila del Gran Paradiso, poco più che una passeggiata per lui, un’impresa per me. Corremmo insieme la Maratona di Roma, dove lui arrivò un buon quarantacinque minuti prima. Non me la presi, fin da bambino avevo accettato questo divario.
Otto anni fa ci inventammo i raid cicloturistici esotici. Luciano in solitaria era già stato in Vietnam con la bicicletta, fu lui a progettare il mitico viaggio in India, tra le rive del Gange, il deserto del Rajasthan e New Delhi. Nacque il mio primo libro dove sbeffeggiavo me stesso, i compagni e poi lui, il mitico Luciano, leader per indole e qualità.
In un passo del libro lo definii prepotente (ironizzavo e sfottevo, ovviamente). Lui mi rimproverò piccato, dicendo che avevo sbagliato aggettivo.
«Cosa avrei dovuto scrivere?» gli chiesi.
«Volitivo» rispose serio.
Aveva ragione.
Altre volte lo prendevo in giro dicendogli che era diventato famoso in tutta l’Ossola grazie al mio libro. La cosa era così assurda che non rispondeva neppure, si limitava a sfoggiare quel sorrisetto sardonico, suo marchio di fabbrica. Chiunque l’abbia conosciuto ricorderà per sempre quel sorriso.
Poi abbiamo fatto altri viaggi e io ho pubblicato un secondo libro con lui al centro.
Recentemente ci si sentiva al telefono, vagheggiando di ripartire in bici. Ci si lamentava degli acciacchi che alla nostra età aumentano in modo preoccupante.
Entrambi confessavamo l’un l’altro una paura, uno spettro davanti a noi: il momento in cui le forze e il corpo ci avrebbero detto lentamente ma inesorabilmente: basta!
Anno dopo anno Luciano misurava la capacità ancora integra di impegnare il fisico: salire al Lusentino in bici in tempi accettabili, compiere un’ascensione in montagna a “modo suo”. L’anno scorso un incidente in bicicletta l’aveva bloccato. Volitivo (appunto!) come sempre, si era ripreso, bruciando le tappe e mi aveva raccontato di essere salito al Lusentino spingendo sui pedali dopo qualche mese di forzata immobilità. Per la prima volta, arrivato quasi in cima, aveva dovuto mettere i piedi a terra. Un sacrilegio per lui, un’offesa al suo amor proprio! Si era ripromesso di annullare quel deficit e ritornare all’usuale potenza.
La sfida era sempre e solo con se stesso.
Luciano non poteva invecchiare. La mesta vecchiaia, il progressivo cedimento fisico che ti impedisce di fare sport per lui non sarebbe stato l’inizio della strada verso la morte, no, sarebbe stata la morte in vita, in attesa della liberazione finale.
Luciano era un guerriero. Adesso che non c’è più capisco che la sua immagine, la sua vicenda sono quelle degli eroi omerici. Ettore, Aiace, Achille, Ulisse, eternamente giovani, magari vinti, ma mai sconfitti. Anche la sua battaglia lassù sulle nevi del Lusentino è stata epica e lui, come un eroe mitologico greco, ha lottato contro il mostro che lo insidiava.
E ne è uscito vincitore, perché la valanga che lo ha ucciso non era l’avversario, era l’arma con cui lui ha trionfato sul drago, sul mostro che lo minacciava: la vecchiaia.