Moltissimi anni fa, io ero un ragazzo, avevo un cagnetto, un bastardino intelligentissimo di nome Nabù. Tutte le mattine, pomeriggi e sere bisognava portarlo a fare pipì nei paraggi. Sul percorso della passeggiata rituale c’era una villa con giardino, protetta da una robusta cancellata. All’interno vivevano due cagnacci temibili, ingaggiati per scoraggiare qualsiasi intrusione di malintenzionati. I due ringhiosi custodi avrebbero sbranato chiunque fosse capitato a tiro.
Nabù si era immediatamente inventato un gioco che lo appassionava molto.
Stando ben protetto al di qua del cancello, aizzava le due belve nell’altro lato. Scodinzolando corricchiava avanti e indietro davanti le inferriate, mentre i due cagnacci facevano il finimondo, ringhiando, abbaiando, latrando e mostrando fauci che avrebbero schiantato Nabù, se avessero potuto afferrarlo.
A lui non pareva vero. Si spostava due metri a destra, inseguito dai due furibondi. Poi saltellava due metri a sinistra, mentre le belve rischiavano l’infarto per la rabbia impotente. Dopo qualche minuto di questa manfrina, Nabù considerava raggiunto lo scopo, alzava la gamba per una pisciatina irridente e si allontanava appagato.
Fino alla volta successiva.
Si prendeva la sfera e si faceva un tiretto simbolico, per non farlo rimanere male.
Lui partiva corricchiando in quella che doveva ritenere la velocità di un tempo, povero vecchio! La palla, lì vicino, non la localizzava subito, era subentrato qualche problema anche di vista. Però la gioia quando l’afferrava nelle fauci e la portava indietro era tutta nella coda che sventolava trionfante. Quella non invecchia mai!
Riportava la palla ai piedi e qualcosa nel suo sguardo triste sembrava dire:
«Fai finta di tirarla, ma non tirarla!»
Non la tiravo e oggi capisco cosa lui provasse.
Nelle altre sere si consumava un dramma con copione identico.
Accensione della luce in camera di mamma. Frase di rito: «Marco, sei tu? Ma che ore sono?!».
(Uno legge una frase che sembra normale. La scrittura non permette di percepire i toni di un parlato. Per superare questo limite userò esempi canini).
La prima parte,
«Marco, sei tu?», era pronunciata con l’amore che una cockerina rivolge al proprio cucciolo alla prima poppata.
Nella seconda parte, «Ma che ore sono?!», era un rottweiler che ha sorpreso il gatto del vicino a mangiare nella sua ciotola.
Per un cane un campo nudisti è come il bancone di un macellaio: carne esposta ovunque. Lombate, costate, busecca (trippa per i non lombardi) in abbondanza e tanti wurstel (capite a cosa alludo, vero?). Wurstel di tutte le misure.
Alcuni di taglia large, altri (beati loro) addirittura extra large (pochissimi in verità), la maggior parte medium size e altri small size.
Si potevano anche vedere alcuni esemplari di “mi rassegno size” e persino qualche sporadico “mi vergogno size”.
Un campionario di carni varie che non si vedono neppure nel più fornito degli ipermercati. Una tentazione continua per un povero cane di appetito gagliardo. Si sa, lo spirito è forte, ma la carne è debole, figuratevi per un quadrupede in cerca di spuntino.
Un uragano tropicale spalancò la porta della camera. Due donne con gli occhi iniettati di sangue e i capelli a mo’ di vipera, stile Medusa del Caravaggio, irruppero come agenti Digos nel covo di un boss camorrista armato. Per una frazione di secondo pensai che non fosse carino per delle gentildonne entrare così nella stanza di un uomo senza bussare, ma decisi che non era il caso di fare rimostranze.
La mite signora fu la prima a parlare, Petronilla sembrava ne fosse impedita da un violento accesso d’asma. «E tu, sciagurato, avresti permesso a Camilla di salire sui miei divani?» mi ringhiò molto meno mite del solito.
Volevo obiettare che, dipendendo da me, non permetterei mai e a nessun cane di salire su un divano, per nessuna ragione. Anche questa disquisizione su principi di sana educazione canina mi parvero fuori luogo in quel momento e tacqui.
Cercavo di farmi più piccolo possibile, mentre le due furie umane mi sovrastavano minacciose.
Finalmente anche Petronilla sembrò ritrovare il dono della parola. Si erse su di me mentre io mi accartocciavo su me stesso. Lei era un cobra davanti a un coniglietto tremante. Mi lanciava occhiate laser, mentre io, prossima preda, pendevo dalla lingua biforcuta, ipnotizzato dal movimento delle spire.
Le sue parole furono sassi lanciati a incidere la roccia: «Adesso TU me la lavi tutta subito!».
Quel TU venne pronunciato come una granata esplosa sul mio musetto conigliesco. Ho un sesto senso formidabile! Intuii immediatamente che il “me la lavi” di Petronilla si riferiva alla cagnetta e non ad altro.
Orgoglioso e impaziente condussi Raul davanti al carrello messo in opera, attaccato alla bici e pronto. La parte anteriore aperta per l’accesso invitava a salirci.
Guardai il mio cane e ordinai perentorio: «Op!».
Raul mi guardò con quello straordinario punto interrogativo nel muso che solo lui sapeva fare.
«Vorresti forse dire che devo salire su quel coso?» metadomandò stralunato.
«Op!» riprovai con maggiore energia.
«Ma neanche morto» fu la sua risposta.
Raul, razza boxer di origine teutonica, aveva un senso della disciplina spinto fino all’immolazione. Al terzo ordine abbaiato dal padrone, accompagnato da una energica sollecitazione con il collare, mi guardò come il condannato guarda il comandante del plotone di esecuzione e salì riottoso sul carrellino.
Chiusi con la cerniera il telo anteriore e guardai soddisfatto Raul, imprigionato e offeso.
Seduto sulle zampe posteriori, guardingo e preoccupato, sfoggiava la sua migliore interpretazione de “l’essere più avvilito nella storia dell’universo”. Salii sulla bicicletta e mi concessi venti metri di prova.
Il trabiccolo funzionava benissimo. Ero soddisfatto. Ignorai Raul che provava a dirmi qualcosa di poco lusinghiero sui miei antenati e ripresi più baldanzoso il giro.
Fantastico! Il carrellino era percettibile in partenza, quando si doveva vincere l’inerzia. Appena la bici acquistava velocità, il peso supplementare si annullava. Ovviamente avrei dovuto guardarmi dalle salite, ma le cartine e lo studio del percorso mi assicuravano che il Danubio nel suo scorrere verso il mare non sale mai in collina. In Germania i fiumi li fanno così.
La corriera riprese la marcia in salita, mentre fuori la tormenta faceva vibrare il grosso veicolo.
Noi si guardava ansiosamente la strada, speranzosi di vedere il gregario in fuga. Quando mancava poco più di un chilometro al passo, proprio in corrispondenza a una fermata del postale, scorgemmo Fabio sdraiato supino su un prato, al ciglio della strada.
Ci fiondammo da lui, sfidando il vento implacabile.
Era esausto e disidratato. Chiese subito da bere; gli porgemmo una borraccia che lui drenò in un attimo. Il padre lo sollecitò a salire sulla corriera. Fabio lo fulminò come se gli avesse proposto il più efferato delitto.
«Mai!» esclamò.
Mentre l’autista del postale ci ingiungeva di salire oppure scaricare le bici, Fabio inforcò eroicamente la sua e affrontò di petto le intemperie.
Noi ci rifugiammo mesti in corriera; in pochi minuti fummo in vetta tra raffiche di vento violente.
Scaricate le bici, il cuore paterno di Carlo gli ingiunse di correre incontro al figlio. A malincuore sentii che era mio dovere seguirlo.
Dopo poche centinaia di metri, percorsi con difficoltà a mantenere l’equilibrio in sella, incrociammo Fabio, con il viso trasfigurato dallo sforzo estremo. Aveva il piglio di Coppi sullo Stelvio (un uomo solo al comando!) e lo sguardo di Napoleone trionfante sul nemico in fuga; dava le ultime pedalate con violenza, come calci vendicatori al vento e all’asfalto del Sempione. Arrivò in cima come un trionfatore, scortato da Carlo commosso e da me arrancante.
[…]
Quanti bei ricordi!
Ma quelli più vivi di quell’impresa sono legati a Fabio.
Rivedo la sua figura snella e atletica che inanella giri su giri nelle rotonde di Francia aspettando pazientemente i “vecchi”. E sempre rivedo il suo sguardo fiero nel trionfare sul Sempione spazzato dalle spaventose raffiche di aria gelida.
Grande Fabio!