Mamma Luisa è una veterana ormai.
Accompagna Carlo e me all’aeroporto per questa nuova impresa, con minore angoscia dell’anno scorso alla partenza per l’India. Allora guardava il suo Carletto come una mamma dell’ottocento deve avere guardato il figliolo in partenza con Garibaldi per la spedizione dei Mille. Oggi saluta e abbraccia il marito come se stesse semplicemente andando in Afghanistan a sminare terreni. Un pochino più rilassata, insomma, ma non molto. Anch’io ricevo il suo abbraccio amorevole: in fondo mi vuole bene.
È la prima volta che sento la parlata dei nativi, mentre sgorga fluente in una loro discussione. Non si capisce una sola parola. Persino in danese o in finlandese ogni tanto si capta un vocabolo di origine latina. Qui è solo un flusso ininterrotto di suoni gutturali, acca aspirate, toni di voce che s’innalzano fino a diventare striduli o che si abbassano a rendere tonda e corposa l’emissione. L’effetto musicale non è sgradevole. Molto peggio ascoltare due tedeschi che parlano e che danno l’impressione di essere litigiosi anche quando commentano il bel tempo, oppure gli olandesi che quando articolano un discorso sembra che siano affetti da una brutta laringite che li costringe a raschiarsi la gola.
Il cinese ha una sonorità tutta sua, in cui spiccano le “v” e le “f” che sembrano predominare sulle altre lettere, intervallate da parole che terminano in “ing”, “ong”, “ang” come tanti colpi di gong (appunto!) o campanellini di un concerto barocco. Completamente assenti le “r” che non riescono neppure a pronunciare, sostituendole con “l” a conferma dei triti stereotipi.
Passeggiando in questi vasti spazi affollati di gente, noto che sono pochissimi gli occidentali, quasi una rarità, in un fluire continuo di persone con gli zigomi alti e gli occhi a mandorla. Ci sentiamo dei “diversi”. Devono pensarla così anche i cinesi, perché spesso veniamo fermati da alcuni di essi che ci chiedono di essere ritratti con noi. Ci ritroviamo a sorridere un po’ impacciati a qualche fidanzato munito di macchina fotografica, mentre veniamo presi disinvoltamente sotto braccio dalla sua bella che sorride, mostrando immancabilmente l’indice e il medio nel segno di “vittoria”.
Capita che un papà e una mamma ci rifilino in braccio qualche tenero bambolotto in carne e ossa, inevitabilmente paffutello, con il viso tondo e gli occhi obliqui ad accentuare l’aria smarrita che hanno i lattanti quando si trovano in braccio a sconosciuti. In questa caccia alla foto - chissà perché - Angelo è il più gettonato. Lui sostiene che colpiscono la sua stazza, il pizzetto e i capelli bianchi, come un novello (nonno di) Porthos. Raggiunge l’apoteosi quando tre belle e giovani ragazze lo circondano affettuosamente per farsi immortalare al suo fianco, suscitando i sarcastici e acidi commenti di noi esclusi.
Ed eccoci alle prese con le famigerate bacchette. Chi è capitato in un ristorante cinese in Italia, sa che sono un accessorio immancabile sulle tavole, altrimenti che ristorante cinese sarebbe? Sa anche che sempre, quasi nascoste sotto il piatto, si trovano confortanti posate occidentali, forchette soprattutto. Qui siamo in Cina e siamo in un ristorante che è cinese perché questa è la sua nazione, non perché vuole attrarre europei in vena di esotismo. Non ci sono posate, ci sono solo bacchette.
La cosa ci diverte molto… all’inizio. Ognuno di noi si cimenta a catturare pezzi di cibo che si trovano davanti a lui sul vassoio rotante. Le bacchette non collaborano affatto. Come avrà fatto la plurimillenaria cultura cinese a concepire aggeggi così scomodi per eseguire una operazione ricorrente e fondamentale come il mangiare? Ognuno di noi si sforza di escogitare tecniche improbabili per afferrare gli sfuggenti bocconi con i maledetti bastoncini e, quando è premiato da una parvenza effimera di successo, crede di avere scoperto il segreto e si erge a maestro per gli altri compagni di sventura.
Angelo si volta verso di noi con un’espressione trionfante sul viso. Per una “buona forchetta” (espressione emblematica) come lui è fondamentale riciclarsi in “buona bacchetta”, pena rischiare una dieta non programmata e sicuramente non gradita. Forse ha trovato la tecnica giusta. Lui ne è sicuro, dice. Mostra con orgoglio la mano destra in cui indice e medio tengono una bacchetta e anulare con mignolo, l’altra. Muovendo in modo innaturale le due coppie di dita si ha una parvenza di pinza che arpiona il cibo.
«Si fa così!», proclama, passando alla dimostrazione pratica.
Apparentemente funziona e un paio di fette d’anatra finiscono dal piatto di portata a quello suo personale e, da lì, alla bocca in trepida attesa, facendo illuminare con un sorriso il suo faccione compiaciuto.
Mi guardo intorno perplesso e constato che nessuno dei cinesi presenti ha le bacchette in quella posizione.
Questo mi insospettisce. Possibile che dopo quattromila anni di civiltà e migliaia di generazioni di cinesi sia arrivato Angelo dall’Italia a spiegare come si mangia?
Infatti, dopo qualche minuto, le bacchette di Angelo e le sue dita formano intrecci e angolazioni surreali che mi fanno temere per le articolazioni dell’amico. Se riconsegniamo a Mariangela il marito con le dita da ortopedia intensiva, in aggiunta al ginocchio malandato, sono guai. Accantoniamo la fantasiosa tecnica del “due dita per bacchetta”.
I libri di storia dicono che nel 1949 Mao guidò la rivoluzione culturale partendo da ottocento milioni di cinesi affamati. Il “grande timoniere” con la sua leadership consentì a tutti di sfamarsi. Sospetto che Mao diede loro semplicemente delle forchette e la carestia scomparve.
Dopo qualche minuto si presenta la “dimostratrice”. È una ragazza non particolarmente carina, ma dall’aria energica e grintosa. Ci saluta con garbo e sfoggia subito un ottimo inglese, non a livello di Lil, ma corretto ed efficace.
Con un breve preambolo ci spiega che è lì per illustrarci le caratteristiche di ben cinque diverse qualità di tè. Sono tutte produzioni cinesi, dice con orgoglio, e ci descrive minuziosamente le regioni di provenienza (non saprei ripeterle), il tipo di coltivazione e altre informazioni di carattere generale.
Passa a dimostrare praticamente la bontà del primo tipo. Si muove con sicurezza e trasuda professionalità collaudata in mille esibizioni analoghe a quella che sta eseguendo per noi. Afferra un filtro in ferro e lo riempie di foglioline sminuzzate di tè rossastro, prelevandole da un vasetto davanti a lei. Non smette un attimo di descrivere le qualità del prodotto: tè “tal dei tali” indicato per la digestione, favorisce il processo metabolico, eccetera, eccetera, eccetera.
Mentre parla senza interrompersi, solleva un bricchetto pieno di acqua bollente dal fornelletto in cui è appoggiato. Regge con una mano il filtro ripieno di tè, e vi cola dentro un flusso d’acqua dal bricchetto, stranamente tenendolo alto circa trenta centimetri rispetto al filtro. A sua volta il filtro è al di sopra di un piccolo recipiente nel quale si riversa il liquido. Impreziosito nel passaggio sulle foglioline, è diventato tè. Perché tenga il bricchetto così in alto rispetto al filtro non mi è chiaro. Potrebbe essere qualche misteriosa ragione tecnica o, semplicemente, perché il gesto è scenografico, come il pizzaiolo che fa volteggiare la pasta della pizza lanciandola in aria: non serve a nulla, ma fa spettacolo. Propendo per questa ipotesi; non chiedo spiegazioni e guardo affascinato, con i quattro compagni, il seguito dello show.
La ragazza accantona il filtro, rimette il bricchetto sul fornello, solleva il contenitore con il tè che ha preparato e lo versa con la cura e la grazia di una geisha giapponese in una minuscola tazzina, più piccola di quella che noi usiamo per il nostro espresso e, a differenza di quella, senza manico.
Con la devozione che un enologo metterebbe nell’assaggiare un barolo di annata, la dimostratrice assapora un sorso infinitesimale del tè e lo rotea in bocca con aggraziata competenza. Assentendo a se stessa con aria compiaciuta, ne versa una piccola quantità per ciascuno di noi in una tazzina analoga alla sua.
Carlo la ferma con cortese, ma virile decisione. Ha dichiarato in precedenza che a lui il tè proprio non garba e non si presta ad assaggi di sorta. La ragazza sorride compassionevole verso lo sventurato - non sa cosa perde - e si dedica a scrutare la reazione di noi altri quattro. Ciascuno di noi è impegnatissimo a non ridere e a mostrarsi compunto nell’assaggio, almeno quanto la professionista lo è stata nella preparazione.
A me quel sapore di tè senza zucchero continua a non piacere, ma mi sforzo di imitare la ragazza e roteo il sorsetto che ho in bocca, facendo in modo che nessuna delle papille gustative nella lingua e nelle mucose accessorie sfugga all’ingrato compito che le è richiesto. Mi soffermo sulle espressioni di Angelo, Graziano e Luciano. Mi ricordano altrettante vecchie lady inglesi alle cinque del pomeriggio: ne hanno la stessa solenne serietà, nonostante siano ridicolissimi nel roteare il liquido in bocca come se fosse grappa pregiata. Immagino che anch’io debba essere ai loro occhi altrettanto buffo.
La ragazza si avvia a concludere questo primo assaggio, chiedendoci se percepiamo un retrogusto di non so bene quale sapore, mi pare rosa o qualcosa del genere. Assentiamo tutti con convinzione (persino Carletto suggestionato) e la ragazza, appagata, prosegue.
La cerimonia si ripete identica con un altro tipo di fogliolina. Il filtro, il bricchetto, i trenta centimetri da cui fare piovere l’acqua, il tè versato nel contenitore e da qui nella chicchera per il primo severo assaggio della “teista” (se l’esperto di vini è detto “enologo”, mi viene il sospetto che questa ineguagliabile professionista debba essere definita “tèologa”; mi informerò con qualche linguista).
Forse perché ritiene che i cinque allievi (includiamo anche Carlo, va’) siano promettenti, introduce una variante che è un autentico coup de théâtre. Dopo avere roteato in bocca il sorsetto di bevanda, ne ingoia platealmente una parte, trattenendone pochissima in bocca. Atteggia le labbra in modo adeguato e si produce in un verso che ci lascia basiti. È come quando si vuole chiamare un gatto. Chi non l’ha mai fatto? Si appoggia la lingua al palato, appena dietro alla corona dentale e si esegue quella specie di piccolo risucchio che si trasforma in una sorta di “nci” schioccato e ripetuto ritmicamente.
Il test del “nci” evidentemente riesce alla grande, perché, dopo averlo ripetuto diverse volte, la ragazza annuisce con convinzione e versa i quantitativi per noi. Diligentemente trascura Carlo, ma credo che questa volta l’amico abbia qualche rimpianto.
Noi non ci lasciamo sfuggire la ghiotta occasione e, ingollato il nostro sorsetto, ci esibiamo in un concerto di “nci, nci, nci” da fare accorrere tutti i felini di Pechino. Strafacciamo: ognuno di noi guarda l’altro, muovendo la testa in ampi gesti di assenso come a significare: «ma senti che meraviglia questo tè!». Vedere Luciano protendere le labbra, teatralizzando il gesto e proseguendo compunto a simulare una degustazione di altissimo livello, è di una comicità irresistibile; fatico a non ridere. Per controllarmi ricorro a un’altra serie di irreprensibili “nci, nci, nci”.
Senza sostanziali variazioni sul tema, la degustazione si ripete per le rimanenti tre qualità di tè e la ragazza alla fine riscuote un eclatante successo: persino Carlo chiede di assaggiare l’ultimo dei campioni.
Rimane da capire il ruolo del bamboccio dal pistolino in evidenza. Domando alla ragazza cosa serva (il bamboccio, non il pistolino) e quella mi guarda con l’aria che una maestrina riserverebbe a un Pierino un po’ discolo.
Accondiscende. Prende il bamboccio, lo appoggia in un piattino contenente un piccolo strato d’acqua e pochi secondi dopo si vede uno spruzzetto uscire dal pistolino. Non so bene quale sia il trucco. Immagino sia un fenomeno di assorbimento da parte del materiale di cui è fatto il bamboccetto. Ridiamo divertiti e la ragazza pone fine alla dimostrazione.
Fine della dimostrazione, ma non della visita. La stessa perfetta professionista ci guida gentilmente nella grande sala in cui siamo transitati all’inizio e si arresta davanti a uno scaffale su cui fanno bella mostra scatole eleganti e coloratissime delle dimensioni di un nostro panettone confezionato. La dimostratrice, indossati i panni di venditrice, ci spiega che lì troveremo un assortimento di tutte le qualità di tè che abbiamo sperimentato e che ci è piaciuto tantissimo. Come potremmo negarlo? Mi sorride allusiva: troveremo anche un bamboccio dal pisellino spruzzante.
Con il garbo e la pacatezza delle vecchie lady inglesi le spieghiamo che siamo in bicicletta, che dobbiamo pedalare da Pechino a Shanghai, non vediamo come potremmo trasportare nel bagaglio le scatole con il suo tè.
Si mostra molto, molto delusa, ma non demorde. Si sposta fino a un ripiano dove ci sono scatole di dimensione ridotta rispetto alle precedenti. Con aria rassegnata ci spiega che sacrificheremo la quantità, ma almeno avremo la soddisfazione di assaggiare quelle prelibatezze anche in Italia. Perderemo l’optional del bamboccio incontinente, ma… “chi è causa del suo mal, pianga se stesso!”.
Non ci siamo capiti. Ribadiamo che siamo in bicicletta e vogliamo evitare ogni peso, ogni ingombro superfluo. Sottolineiamo con perfidia la parola superfluo.
La ragazza è palesemente contrariata, quasi offesa. Ci sposta fino a un ultimo scaffale con delle graziosissime scatolette grandi poco più di un pacchetto di sigarette. Con aria afflitta ci spiega che lì troveremo un modesto assaggio di due o tre qualità del suo prestigioso tè. Se proprio vogliamo rinunciare a tanta eccellenza, almeno potremo consolarci con quel modesto, inadeguato campioncino.
Quando, inflessibili, le facciamo segno di no e, senza ulteriori cerimonie, ci avviamo verso l’uscita, la ragazza è costernata e, potrei giurarlo, si trattiene a fatica dal piangere.
Usciamo in strada e, inguaribili goliardi, ci esibiamo mitragliando raffiche di “nci, nci, nci”, ogni volta più sonori, esasperando l’effetto comico. Non possiamo trattenerci dal ridere. E Lil dov’è? È rimasta dentro, dopo essere stata testimone silenziosa di tutta la dimostrazione e la tentata vendita.
Esce. Si avvicina e ci rimbrotta semiseria.
«Avete commesso un crimine», ci dice. «Quella ragazza è la migliore venditrice del negozio. Nessuno aveva partecipato a una sua dimostrazione senza acquistare. Mai. Ho dovuto consolarla, non riusciva a capacitarsi che non uno dei cinque italiani avesse voluto almeno la più piccola delle scatole. Le avete inferto una sconfitta e un’umiliazione terribile, poveretta!».
Anche Lil ride nel dircelo e noi, irriverenti, la subissiamo di torrenziali “nci, nci, nci”, mettendo un suggello irriguardoso al crollo della top venditrice di tè cinese.
Dopo Tianjin si è alzato un fastidioso venticello che, nella migliore tradizione dei ciclisti, soffia in diagonale nella direzione contraria alla nostra. Procedendo mi accorgo che aumenta d’intensità e, nel contempo, cominciano a levarsi folate di sabbia finissima, quasi cipria, che arrivano a ondate irregolari.
Il paesaggio è mutato ancora, la pianura che ci circonda è diventata secca e sabbiosa, come una sterminata spiaggia in cui è assente il mare. Qua e là si vedono delle strane trivelle dalla testa a martello che ricordano quelle dei pozzi petroliferi. Forse lo sono; quello che ci circonda è un immenso brutto nulla, non la costa marina che avevamo vagheggiato.
Il vento peggiora e progressivamente ci troviamo immersi in una nebbia di polvere densa di colore ocra.
Faccio fatica a distinguere Carlo che pedala a testa bassa davanti a me, impossibile inquadrare Angelo e gli altri due. La strada è pericolosa. Esiste sempre la corsia destinata a biciclette e motorini, ma il traffico di camion che ci sfiorano sbucando tra la polvere è incessante. Ognuno di quei bestioni che ci sorpassa, suonando il clacson ininterrottamente, fende la coltre di pulviscolo, sollevandone altro, ricoprendoci ancora di più di quella caligine giallastra. Non ho mai sperimentato una tempesta di sabbia nel deserto, ma credo che non possa essere molto diversa da questa.
Sto pedalando in un inferno che ricorda una bolgia dantesca; tutto è offuscato e avviluppato da quella spessa nebbia sabbiosa. Rallento ulteriormente, seguendo l’ombra confusa di Carlo di cui mi giungono le frequenti imprecazioni. Proseguire in queste condizioni è un martirio e forse un suicidio: dubito che i pesanti veicoli che ci sfrecciano accanto ci vedano se non a ridosso, come confermano gli strazianti ululati dei clacson. Urge fermarsi.
A fatica Carlo e io riusciamo a distinguere la sagoma di un edificio che si staglia a lato della strada, in fondo a un piazzalone sepolto da quella micidiale polvere ocra.
«Devono essersi fermati qui», mi dice l’amico, intuendo più che vedendo le sagome delle biciclette appoggiate al muro dell’edificio.
Sono loro. Da una finestra ci fanno segno di entrare; siamo dei naufraghi a cui si presenti una zattera.
Appoggio la bici al muro e la osservo: borse, bandiera italiana, telaio, manubrio, tutto è ricoperto e nascosto da quell’assurda cipria ocra. Lo stesso Carlo davanti a me assomiglia a una statua di terracotta.
Il locale, che è una piccola trattoria, ha un minuscolo atrio in legno che sembra fatto apposta per spolverarsi. La situazione che stiamo vivendo non deve essere l’eccezione, ma la regola in questo posto infame.
Rimaniamo tappati nella locanda per un paio d’ore, nella speranza che almeno il vento si attenui. Nessuno di noi se la sente di affrontare un nuovo bagno in quella nebbia polverosa.
Alla fine Graziano ci riscuote dall’inerzia:
«Dai, forza! È ora d’andare!», ci incita.
Uscire e tuffarsi in quella cortina odiosa è un trauma. Il piazzale è largo e sullo sfondo si vedono le sagome rombanti dei camion che perforano la coltre di polvere come squali che attraversano le tenebre degli abissi.
La superficiale spolverata che mi sono dato prima di entrare nella locanda viene annullata in pochi secondi già nel percorrere il piazzale fino alla strada. Forse il vento si è un po’ attenuato, non certo il polverone.
Riprende il penoso viaggiare, con le gambe indurite dalla sosta. Sono le tre del pomeriggio; auguro a me stesso che ci si fermi tra non molto.
Pedalare in quelle condizioni è una tortura, ma lentamente qualcosa cambia: non il vento che si mantiene ostinatamente fastidioso e contrario, ma il terreno. È meno sabbioso e la coltre di cipria asfissiante che ci avvolgeva diventa più rada fino a quasi sparire del tutto.
La finissima sabbia però è rimasta: guardo con rammarico la povera bandiera italiana, eroicamente appesa al bagaglio. È giallo ocra anch’essa e, a malapena, si distingue il tricolore.
Poco più avanti, lungo un bel viale alberato contornato da edifici, troviamo un banchetto dove due anziani cinesi, un uomo e una donna, vendono frutta.
Carlo ha fame e ci propone di mangiare qualcosa. Buona idea.
«Che ne dite di una banana?», propone.
«Vada per la banana!».
Non è difficile farsi capire. In esposizione ce ne sono molte, gialle e invitanti. Carlo fa segno con la mano di volerne tre. La vecchietta capisce e prende la prima mettendola in mano all’amico. Non è matura. Carlo la rimette nel mucchio e indica con il dito un altro frutto dalla buccia giallo intenso.
La vecchietta non capisce o fa finta di non capire. Riprende la banana acerba e la ripropone a Carlo.
Lui, paziente, la rimette al suo posto e fa cenno di no con la mano: quella lì non va bene, vuole l’altra più matura.
Intervengo io in suo aiuto. Punto il dito su tre banane belle gialle. Siamo in tre e vogliamo tre frutti. Quei tre lì!
La vecchietta annuisce. Prende due delle banane che le ho chiesto e… aggiunge come terza quella già respinta da Carlo.
Carlo è toscano. Nessun conterraneo di Giovanni dalle Bande Nere potrebbe accettare una cosa simile senza reagire. Se lo facesse verrebbe radiato d’ufficio e trasferito di nascita - che so? - in Basilicata o in Svizzera, ma sicuramente via dalla terra che fa del “caratteraccio” un vanto.
Lo sentiamo tirare un paio di moccoli coloriti e poi aggredire verbalmente la temeraria vecchietta, berciando una raffica di frasi in italiano.
«Porc…! Vuoi capire che non voglio questa banana? Perché mi vuoi dare una banana acerba? Io voglio quella lì», il tono si alza ulteriormente, «quella lì che è bella matura! Quella liiiì!».
Il dito puntato come una pistola contro la banana gialla è perentorio.
La vecchietta lo guarda stralunata. Non deve avere capito molto, solo quello che basta per prendere mogia mogia la banana voluta da Carlo e metterla insieme alle altre due.
Lo sguardo di “giustizia è fatta” con cui il nostro amico sbuccia e addenta il contestatissimo frutto è da antologia.
Finalmente il Tai Shan. La guida lo definisce un museo a cielo aperto. È conosciuto da tempi antichissimi, vi sono reperti archeologici di presenza umana risalente a 6000 anni fa. L’altezza della montagna non è vertiginosa: 1.545 m sul livello del mare. È poco se si compara alle vette delle nostre Alpi a cui siamo abituati, per non parlare del Tibet che i cinesi si ostinano a considerare una loro provincia, dove altezze quattro volte superiori sono normali.
Eppure il fascino di questa montagna non è proporzionale alla sua altezza, ma molto superiore. Il clima contribuisce alla suggestione di questo luogo. È rarissimo, ci avvisa la guida, che la cima non sia avvolta in una nebbia gelida che ammanta tutto come se la sacralità del posto fosse protetta da qualche dio scontroso che non vuole concedere ai mortali la vista della sua casa.
L’origine mitologica delle montagne sacre si rifà al dio Pangu che partendo dal caos decise di creare le cose secondo i principi dello yin e dello yang. Innanzi tutto separò il cielo dalla terra. Questo processo di separazione durò diciottomila anni durante il quale Pangu creò tutto ciò che è su questo mondo.
Alla fine di questo estenuante periodo il dio esplose per la fatica: il suo respiro diventò il vento, la sua voce divenne il tuono, il suo occhio sinistro si trasformò nel sole e il destro nella luna. Il resto del corpo servì per modellare la terra. In particolare le due braccia e le due gambe andarono a formare le altre quattro montagne sacre, mentre la testa di Pangu divenne il Tai Shan, che per questa ragione è considerata la più importante.
Essa è sempre stata tenuta in grande considerazione dai potenti cinesi. Tutto il mondo è paese: il sapiente utilizzo della religione serve a chi governa per condizionare e sottomettere la volontà dei popoli. Basta fare credere ai sudditi che chi comanda è ispirato da un dio di cui ha la benevolenza e il gioco è fatto.
L’imperatore Qin Shi Huangdi dalle pendici del Tai Shan per la prima volta proclamò nel 219 a.C. l’unità di tutta la Cina sotto il suo dominio. Sembra che anche il nome Cina derivi da Qin, ovvero dal nome della dinastia di quel grande sovrano.
C’è una buffa leggenda su questa salita dell’imperatore alla vetta. Sorpreso dalla pioggia lungo il percorso, pare che trovasse riparo sotto quattro pini. Riconoscente (e bizzarro) li nominò ministri. Ancora oggi c’è il posto dove l’episodio, vero o inventato, accadde. Qin Shi Huangdi, primo imperatore della dinastia Qin, fu anche colui che commissionò per il suo sepolcro il celeberrimo esercito di terracotta.
Cotanto personaggio non fu il primo a nobilitare la montagna sacra e a inserirla nei capitoli più importanti della storia cinese: Confucio l’aveva frequentata già trecento anni prima. Tuttavia quel primo sovrano fu uno dei governanti più prestigiosi che cercarono e ottennero una sorta di investitura in questo posto magico, pregno di suggestioni. Da allora si affermò la credenza che nessun re, imperatore e, in generale, capo supremo della nazione poteva ritenersi degno del suo ruolo se prima non era arrivato in cima al Tai Shan.
Neppure Mao Tse Tung seppe e volle sottrarsi a questa tradizione e compì anch’egli il rito millenario, ascendendo la vetta. La storia dice che, ammirando il panorama, pronunciò la frase “L’oriente è rosso” che è rimasta nell’aneddotica del Grande Timoniere.