Come un servo infedele (Prima parte)
Antologia
In paese circolava un aneddoto sul suo conto che, vero o leggenda che fosse, rifletteva a meraviglia l’indole di Carlo: si raccontava che un giorno, quando aveva circa vent’anni, era nel mezzo di un campo a lavorare di ranza. Tutto curvo nel lavoro, venne interpellato da uno sconosciuto che, fermo sulla strada a cinquanta metri da lui, chiedeva indicazioni.
– Mi scusi, quanto c’è da qui a Crocemosso? – domandò il forestiero.
– Venticinque minuti – rispose Carlo con sicurezza, approfittando per affilare la ranza.
– Grazie.
L’uomo sollevò la borsa e si avviò a passo molto veloce nella direzione corretta.
Carlo lo lasciò allontanare di duecento metri, ma poi, prima che sparisse dietro una curva della strada, gli si rivolse urlando.
– Ehi! Ehi voi! – gridò.
– Sì, che c’è? – rispose quello senza fermarsi.
Carlo gli fece segno perentorio con la mano di tornare indietro.
– Venite! Venite! – insistette Carlo.
L’uomo, sperando che l’altro gli indicasse una scorciatoia, tornò sui suoi passi fino ad arrivare a pochi metri da dove aveva interpellato il contadino la prima volta.
– Che c’è? – chiese speranzoso.
– Volevo dirvi che con quel passo sono sufficienti diciotto minuti – rispose serafico quel buontempone.
Non si conosce la reazione di quel tale, ma probabilmente non si iscrisse alla schiera, numerosa, degli estimatori di Carlo e del suo umorismo.
Fanny di professione faceva la sarta, i contatti erano soprattutto con le donne. Era timida, ma era solita aiutare i fratelli nella conduzione del laboratorio; lì aveva a che fare con i lavoranti e con i clienti. Sapeva trattare con gli uomini, chi la conosceva non si permetteva alcuna confidenza; né se la permetteva chi la incontrava per la prima volta, frenato dal cortese contegno della giovane donna che dava e richiedeva rispetto a chiunque. Non era bella: magra, il viso lungo e ossuto, il naso pronunciato; il suo aspetto e il contegno riservato non attiravano le attenzioni dei vivaci giovanotti che, come Pastun, non perdevano occasione per socializzare con le ragazze.
Non solo non era mai stata fidanzata, ma non aveva mai avu¬to alcuna significativa amicizia maschile nella sua vita. Rifuggiva anche da quelle compagne che giudicava troppo disinvolte o addirittura sfrontate nel rapporto con gli uomini e, se le chiacchiere con le amiche scivolavano in una sfera per lei fastidiosa, si allontanava con discrezione, sembrandole sconveniente la frivolezza di quei discorsi.
Spurlez, ovvero sconcezze, era il termine dialettale con cui bollava quegli argomenti e scialop, sporcaccioni, chi se ne interessava.
I mortai italiani continuavano a tambureggiare le linee nemiche in quota. Presto si sarebbero fermati per non rischiare di colpire i propri fanti che, con la massima velocità consentita dalla prudenza e dalla pendenza, salivano all’attacco.
La guarnigione austro-ungarica si difendeva con i fucili sparando verso gli assalitori.
Ugo sentiva l’agghiacciante sibilo delle pallottole vicino a lui. Non era un eroe né lo voleva diventare. Saliva con cautela e ogni volta che un possibile riparo si presentava ai suoi occhi, si affrettava a raggiungerlo, fermandosi per tirare il fiato. La sua salita era lenta, così pure quella di Antonio. Quando la protezione gli sembrava più sicura, un grosso masso era provvidenziale, si arrestava, imbracciava il 91 e sparava un colpo verso il cielo, a vuoto. Sapeva che, sparando verso il fronte d’attacco, il rischio di colpire uno dei compagni più avanti sarebbe stato elevato. Non gli sarebbe piaciu¬to neppure uccidere uno dei nemici lassù, in alto. Non aveva odio, non aveva esaltazione patriottica, non aveva alcun sentimento che non fosse paura. Non era mai stato così in pericolo in vita sua come in quel momento.
Si ricordò di quando Adele piangendo l’aveva supplicato di tornare vivo. Allora aveva trovato la forza di sdrammatizzare, di volgere in scherzo l’angoscia della ragazza. Le aveva risposto che non sarebbe tornato morto perché sarebbe stato scomodo prendere la tradotta da defunto, anche camminare gli sarebbe stato difficile senza essere in vita.
Adele non aveva riso come faceva di solito alle sue facezie, si era limitata a guardarlo supplichevole con gli occhi velati di pianto, di apprensione. Con quel viso rivolto a lui, gli era passata la voglia di scherzare, anzi in cuor suo non ne aveva affatto. Aveva stretto forte le mani della ragazza, l’aveva guardata serio e le aveva promesso:
– Tornerò sano e salvo, vedrai, Adele. Anch’io voglio tornare per stare insieme a te.
Quelle parole, che allora gli erano sembrate un presentimento positivo, scaramantico, quasi uno scudo protettivo alla sua incolumità, lì, sotto il fuoco degli Austriaci, lungo le impervie salite del Kalarat, era pentito di averle pronunciate. Ognuna di quelle pallottole che gli fischiavano intorno avrebbe potuto ucciderlo in un battito di ciglia, lui non riusciva a trovare in sé la certezza che ciò non sarebbe successo.
Riprese a camminare, a fermarsi, a sparare verso il cielo, a proteggersi dietro i massi, ad affrontare la salita, aspettando da un momento all’altro di non esserci più.
Come un servo infedele - La seconda generazione
Antologia
Durante la sosta avevano notato che l’umidità dell’aria si era accentuata; una fastidiosa foschia aveva iniziato a nascondere il paesaggio agricolo che fiancheggiava la strada. Ben presto, nonostante fosse primo pomeriggio, la visibilità cominciò a farsi precaria. Ugo continuava a passarsi le mani guantate sugli occhialoni protettivi che l’umidità bagnava di minuscole goccioline. Antonio da dietro allungava il collo per guardare impensierito la strada che il compagno percorreva a velocità sempre minore.
Superarono Formigliana e le case del piccolo centro abitato diedero un poco di schiarita; il sollievo cessò quando imboccarono la strada verso Buronzo. La foschia si era trasformata in nebbia sempre più spessa; strada, campi, sporadici cascinali erano tuffati in una coltre grigia, umida e fredda nella quale nulla si poteva distinguere. Ugo procedeva a passo d’uomo; spesso il ciglio della strada gli si profilava davanti, costringendolo a brusche sterzate verso il centro della carreggiata.
A Balocco le case del paesino diedero una nuova pausa di visibilità accettabile. Antonio e Ugo decisero di fermarsi per attenuare la tensione di quel procedere tormentato. Si consultarono; convennero che proseguire verso Buronzo fosse l’unica soluzione saggia. Da lì si poteva imboccare il tragitto più breve verso nord e verso casa.
Tornare a Formigliana avrebbe allungato il percorso e non avrebbe migliorato la qualità del viaggio. Anzi.
La piazza era animata come al solito, ma il bimbo era annoiato e si stava lambiccando su come ingannare il tempo.
In perpendicolare sotto di lui c’era lo zio Ettore che stava esaminando alla luce del giorno il pellame per delle scarpe. Gianni decise che un tirassegno sarebbe stato un ottimo passatempo. Raccolse in bocca un bel po’ di saliva e poi allegramente sputò
verso il basso.
Fu sfortunato, molto sfortunato!
Il colpo era preciso, il proiettile uscito dalla bocca del monello c’entrò alla perfezione la testa pelata del malcapitato Ettore. Questi levò gli occhi verso l’alto, vide il nipote, capì cosa fosse successo e un urlo leonino gli uscì dal profondo del petto. Gianni, terrorizzato dal gesto sconsiderato di cui comprendeva in ritardo la gravità, si fiondò su per le scale, cercando rifugio in qualche buco del piano superiore. L’imbufalito Ettore si slanciò a sua volta verso gli appartamenti di sopra con l’energia e il furore di un toro ferito durante la corrida.
Raggiunse il colpevole sputacchiatore quando oramai l’ira vindice si era attenuata. Ciò non gli impedì di ricompensare la brava del nipote con un paio di sani, rotondi scappellotti sulla nuca, poi se ne tornò, ancora imprecando, giù per le scale. Scendendo incrociò Adele che era uscita dall’appartamento, richiamata dal trambusto.
Ettore fu sintetico.
«Mi ha sputato in testa» ruggì con gli occhi ancora di brace.
Fu la volta di Adele di balzare come un camoscio sulle scale. Brancò il malcapitato Gianni e lo premiò con una mezza dozzina di sculaccioni, di quelli che un bimbo difficilmente dimentica.
Più tardi fu il turno di Ugo. Mentre il figlioletto pensava di scampare almeno a quella punizione, il padre gli rifilò un generosissimo calcio nel sedere, quali si vedevano solo negli stadi di Serie A.
Anche quella volta Gianni imparò diverse lezioni.
Primo. Gli zii, non solo i genitori, quando perdono la pazienza possono essere pericolosi, molto pericolosi.
Secondo. Se il nonno Carlo aveva mani leggendarie per forza e durezza, Adele era degna figlia del padre e bisognava tenerne conto in futuro.
Terzo. Se sua madre aveva le “mani come pale di un mulino a vento” (quando crebbe usò spesso quella definizione), suo padre con un calcio bene assestato era in grado di rivaleggiare con una granaiola di scapaccioni della pur dotata madre.
Quarto. Non è buona creanza sputare.
Quinto. Meno che mai dai balconi.
Sesto. Drasticamente sconsigliato quando sotto c’è lo zio Ettore.
«È una musica che sembra venire da uno spazio extra umano» proseguì il ragazzo, quasi in preda a esaltazione mistica, «ti avvolge l’anima, ti accarezza il cuore. Se l’ascolti con intensità, lasciando che cuore e cervello si uniscano, ti sembra che una mano possente ti prenda dal suolo e sollevi per aria, facendoti provare l’ebrezza del volo; veleggi tra nuvole e cielo, ti sembra che nulla possa ferirti; ti distanzia dal mondo terreno, ti senti in alto, su, immerso in spazi infiniti.»
Quelle parole non tranquillizzarono Gianni; gli sembrò che l’amico avesse uno sguardo allucinato negli occhi che non riconosceva; sembrava in preda a sentimenti e sensazioni che nessuno avrebbe potuto né comprendere né, meno che mai, condividere.
Sentì crescere il disagio in lui in proporzione al fervore dell’amico, sempre più preda di agitazione interiore, in contrasto con la calma che mostrava nei movimenti.
Paride posizionò il 78 giri sul grammofono, posò la puntina e attese a occhi chiusi che la musica invadesse la stanza. Il languido suono del violino si diffuse, catturando la sensibilità dei due giovani ascoltatori. Dopo le prime note entrambi vennero rapiti da un’estasi che, come aveva detto Paride, li librava nello spazio, quasi veleggiando senza peso.
Gianni fu folgorato da quei suoni, fu incantato, fu invaso, fu travolto dalla musica.
Non ricordava di avere mai sentito nulla di così suadente, penetrante, ipnotizzante. Lasciò che la mente si librasse in alto, verso spazi inusitati. Non badò quando Paride, trasognato, gli si inginocchiò davanti, gli prese la mano, gliela strinse e, con la testa sulle sue ginocchia, bisbigliò: «Perdonami!»
Il suono del violino impregnò la stanza; avvolse persone e oggetti come un profumo capace di annichilire i sensi, lasciando solo attivo l’udito, in presa diretta con l’animo inebriato dei due ragazzi.
Quando il brano finì e le ultime note restarono a ondeggiare nell’aria come piume nel vento, Gianni si riscosse, si alzò stordito e sentì un timore indefinibile invadergli l’anima. Accennò un saluto sbrigativo e lasciò correndo la casa di Paride, come in fuga da qualcosa che lo spaventava e a cui non sapeva dare un nome.”
“L’ora delle decisioni irrevocabili” era nell’aria da tempo. A Domodossola, come nel resto d’Italia, la mobilitazione della propaganda fascista raggiunse il parossismo. La popolazione venne sollecitata a raggiungere Piazza Mercato dove gli altoparlanti
avrebbero trasmesso il discorso del Duce. Con stati d’animo disomogenei, una folla straripante si radunò e alle diciotto e quindici si ebbe la conferma di ciò che già tutti sapevano: l’Italia si schierava al fianco della Germania di Hitler, dichiarando guerra a Gran Bretagna e Francia.
Ugo, Italo e Gianni, in rappresentanza della famiglia, erano in un angolo della piazza; assistettero costernati alle manifestazioni di giubilo che il discorso di Mussolini provocò in una parte non certo minoritaria dei cittadini.
[...]
La Germania nazista era malvista da tutti loro; ne avevano constatato la schiacciante prepotenza e l’aggressiva vocazione guerresca. Ciò li preoccupava e li spaventava. La contiguità, andata crescendo, di Mussolini a Hitler era un formidabile deterrente alla
loro tiepida approvazione del fascismo, se mai vi fosse stata.
Quando poi negli ultimi due anni i venti di guerra erano diventati più che percettibili e avevano cominciato a soffiare insistentemente anche a Roma, l’indifferenza dei Succhiero al fascismo era diventata rifiuto netto e senza tentennamenti. La guerra era
orrenda, Ugo e i suoi lo sapevano fin troppo bene; nulla di buono sarebbe mai venuto dai cannoni. Non potevano né volevano esporsi, ma in casa il dissenso contro il governo e il suo indiscusso Capo, non erano taciuti.
In quel momento, in Piazza Mercato, se avessero potuto, Ugo, Italo e anche il giovane Gianni avrebbero preso a sberle la massa vociante ed esultante che accoglieva con scervellato giubilo l’annuncio di guerra del Duce.
Tornarono a casa, cupi.
«Giuro di essere fedele a Sua Maestà il Re e ai suoi Reali Successori, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere tutti i doveri del mio Stato, con il sol scopo del bene inseparabile del Re e della Patria».
Al cenno convenuto i soldati dovevano esplodere il grido “giuro”, urlato a pieno petto. Ci fu, ma confuso, biascicato. Gianni notò che pochi avevano gridato; molti erano rimasti silenziosi, qualcuno aveva semplicemente emesso un suono inintelligibile, come un rantolo di protesta. Ci fu un attimo di sconcerto tra ufficiali e notabili. Poi, inaspettatamente e in modo sorprendente, qualcuno intonò il più alpino dei canti Alpini. Prima una, due tre voci isolate, poi in rapidissima successione altre dieci, trenta, cinquanta; poi ancora cento, duecento, cinquecento.
“Sul ponte di Perati, bandiera nera,
è il lutto degli Alpini che fan la guerra.
Sui monti della Grecia c’è la Voiussa,
del sangue della Julia ’è fatta rossa.
Alpini della Julia in alto il cuore!
Sul Ponte di Perati c’è il tricolore.”
L’anfiteatro del Rutor fece da cassa di risonanza alle centinaia, migliaia di voci che componevano l’immenso coro; le parole struggenti furono sillabate, unificando le inflessioni di ragazzi provenienti da regioni diverse. C’era un unico cuore immenso nel canto spontaneo. Un’emozione travolgente per tutti: soldati, autorità, comandanti.
Allora Gianni capì e con lui molti di coloro che avevano dubbi. Gli Alpini giuravano fedeltà alla patria, al Re che li rappresentava, alla capacità di morire per difendere l’Italia e gli italiani. Non giuravano al fascismo, non giuravano a una guerra che li vedeva vittime e non protagonisti. Giuravano di essere Alpini con lo spirito che è dentro a ogni Alpino e che mai sarebbe venuto meno a esso. E lo facevano con il canto, il loro canto.
Ivonne Farconey osservò il giovane che si accingeva a eseguire un brano; ne intuì la concentrazione. Lo vide sganciare la linguetta di pelle che chiudeva il mantice e accennare un accordo di prova, probabilmente per saggiare l’acustica della sala; notò come si tornasse a concentrare.
Gli occhi di lui non guardavano lo sparuto pubblico, ma accarezzavano la tastiera alla destra e la bottoniera alla sinistra. Sembrava che con le dita passeggiasse sui tasti bianchi e neri, provando immaginari accordi, lasciando che pulsanti e dita familiarizzassero, come quando ci si avvicina a un cane sconosciuto e si porgono i polpastrelli al fiuto ispettivo, per essere accettati e poterlo accarezzare.
Ivonne lo vide aprire e richiudere due volte il mantice, mentre lo strumento esalava un leggero sospiro sonoro, come se fosse ansioso di sfoderare musicalità. Osservò il giovane alpino alzare lo sguardo sul pubblico e accennare un timido, pallido sorriso.
La giovane fu colpita dagli straordinari occhi azzurri del ragazzo che si appoggiarono sui suoi per un istante brevissimo, poi tornarono a scorrere sul pubblico silenzioso, fino a rifugiarsi sulla tastiera della fisarmonica. La preparazione era durata pochissimi secondi; Ivonne si sentì elettrizzata e impaziente di ascoltare le prime note, come se il cerimoniale silenzioso e garbato l’avesse ipnotizzata, preparandola a qualcosa di speciale.
La devota zia Fanny era impaziente di rendere omaggio alla Madonna di Pompei, a cui voleva dedicare un rosario recitato a memoria, completo di tutti i misteri, che per lei erano una preghiera quotidiana. Contemporaneamente i giovinastri del gruppo erano alla ricerca dei reperti storici, visitando i celebri scavi. Una statua di una divinità pagana, probabilmente Artemide, attirò la loro attenzione. Con uno stratagemma riuscirono a illudere zia Fanny che quella fosse la rappresentazione della Madonna di Pompei; spiegarono compunti come avessero saputo di particolari indulgenze pregandola.
Fanny abboccò e con la devozione che le era abituale, omaggiò con un devoto rosario la figlia di Giove. Probabilmente i nipoti irriverenti con quel gesto si giocarono il paradiso, ma lo spasso fu assicurato, anche se nessuno osò svelare lo scherzo alla severissima Fanny, consci che tra le sue qualità di spicco non brillava il senso dell’umorismo.
Forse la pia donna in quel frangente implorò una grazia speciale ad Artemide, forse fu esaudita. In tal caso Fanny avrebbe dovuto riconsiderare in una luce nuova i rapporti celesti tra la Madonna e gli dei del monte Olimpo.
Il rituale di scherzi lo ripeteva anche con i clienti che entravano in ufficio per qualche acquisto.
«Guardi» disse una prima volta a un tale «la sua auto ha una gomma a terra.»
L’altro, preoccupato, si precipitò all’esterno a controllare.
«Scusi, signor Ugo» domandò il tizio rientrando dopo una minuziosa verifica, «ma quale gomma sarebbe a terra?»
«Tutte e quattro» replicava l’anziano birbone soddisfatto, «non sono mica per aria!»
Risata di tutti… la prima volta. Alla quinta o sesta volta che chiunque si sentiva ripetere lo stesso ritornello, la risposta a Ugo era una paziente protesta.
«Signor Ugo, è vecchia, ce l’ha già detta due giorni fa!»
Lui non se ne faceva un cruccio; il giorno dopo ripeteva il giochino della ruota a terra.
Diceva Oscar Wilde: «L'anima nasce vecchia e diventa giovane: ecco la commedia della vita. Il corpo nasce giovane e diventa vecchio: ecco la tragedia della vita!»
As an unfaithful servant
The publication in English of my historical novel on the events of the Succhiero family was not a project of mine, honestly it was a dream so remote that it seemed like a utopia. I didn't really think about it.
In short, the book (or rather the books, because in the original Italian version there are two) began to be liked, to gather consensus; the number of people who read and appreciated it quickly swelled.
At that moment the hypothesis that it could also find readers abroad began to arise within me, but I still considered it a fantasy far from reality.
The intervention of two people was like the wave of a magic wand that accomplished the miracle.
The first of these people is Mario Cazzanti. Mario is a friend, born and raised in Italy, who in his professional years decided to live and work in the United States. It is he who, having read the story of the Succhiero family, was passionate about it and was the first to instill in me the idea that those events, passions, fears, joys, dreams, loves, dramas could interest and excite a wider audience than the Italian one. It was Mario who worked hard so that I could present my literary work in the States; it was he who encouraged me to undertake the audacious feat: translating my story into English.
The publication in English of my historical novel on the events of the Succhiero family was not a project of mine, honestly it was a dream so remote that it seemed like a utopia. I didn't really think about it.
In short, the book (or rather the books, because in the original Italian version there are two) began to be liked, to gather consensus; the number of people who read and appreciated it quickly swelled.
At that moment the hypothesis that it could also find readers abroad began to arise within me, but I still considered it a fantasy far from reality.
The intervention of two people was like the wave of a magic wand that accomplished the miracle.
The first of these people is Mario Cazzanti. Mario is a friend, born and raised in Italy, who in his professional years decided to live and work in the United States. It is he who, having read the story of the Succhiero family, was passionate about it and was the first to instill in me the idea that those events, passions, fears, joys, dreams, loves, dramas could interest and excite a wider audience than the Italian one. It was Mario who worked hard so that I could present my literary work in the States; it was he who encouraged me to undertake the audacious feat: translating my story into English.
The translation wasn't difficult, but that's not enough. It was necessary to proceed with careful editing to transform sentences, concepts, historical and geographical references, understandable only by an Italian reader, into something usable and assimilable even for those of another nationality and another language.
Thus intervened Joan Amatucci, a formidable lady of Italian origins, but born and lived in the States, and therefore perfectly capable of acting as a bridge between the two cultures and the two languages.
Joan patiently read and cleared the entire long text of what would have been difficult or impossible to understand for anyone who was not Italian. No deletions of sentences, but a chisel work on the English version: a masterpiece of patience, perseverance, and critical intelligence.
Without Mario and Joan this enormous satisfaction of seeing the birth of "As an unfaithful servant" would not have been possible.
Together with them and thanks to them, today I enjoy this great pride which will remain a unique pillar in my life as a writer and as a man.